Ci sono storie che lette sui libri fanno impressione.
Le stesse storie raccontate da chi le ha vissute sono ancora più sconvolgenti. Soprattutto quando parlano di vita vera, quando conosci abbastanza bene chi te le racconta, quando parlano del paese dove ti trovi e della gente che hai attorno, quando negli occhi di chi hai di fronte vedi commozione, coinvolgimento, paura, ricordi e poi anche gioia e speranza. Soprattutto quando per il puro gioco del caso queste storie ti riportano alla mente immagini e colori di posti lontani ma che hai visto personalmente.
C’è una città nel sud Uganda, sulle rive del lago Vittoria, che si chiama Masaka. Ha circa 70.000 abitanti e si trova sulla “highway” che collega Mbarara alla capitale, Kampala.
Masaka era una delle tappe di un fantastico viaggio (il Viaggio, con la v maiuscola) che porterò per sempre nel cuore, negli occhi e sulla pelle.
Karungu, Mwanza, Nyakatasi, Kigali, Mbarara, Masaka, Kampala, Jinja e poi di nuovo Karungu.
Kenya, Tanzania, Rwanda, Uganda e poi di nuovo Kenya.
E ora in Sudan -uno stato diviso a metà e sgretolato da più di vent’anni di guerra civile tra nord e sud, divisi dal petrolio, dalla lingua, dalla cultura e dal colore della pelle- ritrovo in una storia di fuga, divisione e riscoperta gli stessi suoni e le stesse immagini dell’Uganda attraversata qualche mese fa.
Masaka e Kampala.
Ma nella storia si parla di un Uganda molto diversa, quella prima di Obote e poi di Idi Amin, due tra i peggiori dittatori che l’Africa abbia mai avuto, la cui storia politica e personale è zeppa di sangue, violenza e terrore.
Nel 1971, grazie ad un colpo di stato militare, Amin ha fatto deporre Obote ed è diventato presidente, promettendo pace e prosperità e dando in cambio solo pulizia etnica, corruzione e una nazione in ginocchio.
In quel periodo chi mi ha raccontato questa storia viveva con la sua famiglia in un villaggio nel distretto di Masaka, a circa una quarantina di km da Kampala.
Il padre e la madre pochi anni prima erano scappati da Juba, capitale del Sud Sudan, quando era in procinto di scoppiare quella stessa guerra civile tra nord e sud di cui ancora oggi ne viviamo le conseguenze.
La fuga è stata tempestiva e ha permesso loro di evitare la perdita di tutto quello che avevano, di evitare periodi di “reclusione” in campi profughi affollati e in condizioni precarie e ha permesso loro di potersi comprare un pezzo di terra, ricostruirsi una casa e ricominciare una vita.
Ma l’arrivo dei soldati di Amin ha posto fine per la seconda volta a tutto questo.
Perché la persona di cui parlo è nata in Uganda e frequentava la scuola non lontano dal suo villaggio, ma purtroppo è stato rapito dalle milizie in arrivo e si è ritrovato in sud Sudan.
Da solo.
E da solo è ripartito, profugo del sud verso il nord. Verso un posto, Khartoum, che era una specie di terra promessa. Dove non c’era la guerra e dove si poteva provare a campare in qualche modo.
Ora ha una famiglia, grande e stupenda. Ha un lavoro, sicuro e importante, perché aiuta tanta gente, ha i soldi per permettersi la corrente in casa e mandare i figli a scuola. E tutto questo è tanto per una persona che vive in un campo profughi, o insediamento sub-urbano per internal displaced people, o come meglio credete si possa chiamare un posto come Mayo.
Ma la cosa incredibile è stato il racconto di quando, 17 anni dopo essere stato portato via dall’Uganda, sia riuscito a entrare in contatto di nuovo con la sua famiglia e di quando, 2 anni fa, sia riuscito a rivedere sua mamma, che tra le lacrime non voleva credere di avere di nuovo davanti a lei suo figlio.
Questa è la storia.
Io non so raccontare storie, né tanto meno storie di questo tipo.
Non credo di essere in grado di trasmettere a parole quello che ho provato sentendo questa storia o guardando negli occhi chi me l'ha raccontata.
Ma volevo provarci, perché credo sia giusto farlo.
Perché credo sia giusto che si sappia che la guerra fa schifo.